La recensione di Mylo Xyloto

Concepito come un viaggio vissuto in un unico respiro dall'inizio alla fine, in uno spazio-tempo che sembra essere infinito ed interminabile, Mylo Xyloto è un album ricco di sfaccettature, di colori, di suoni di varia natura.

Come in un'esplorazione si possono trovare miriadi di paesaggi, miliardi di profumi, sensazioni che si srotolano di pari passo con la strada da percorrere, così Mylo Xyloto contiene tonnellate di elementi sonori, tutte distribuite secondo un filo logico ben preciso.

L'omogeneità della struttura (ma non dell'intergenere delle tracce) di Mylo Xyloto permette di capire che la storia più antica del mondo è anche la più attuale: in un mondo in cui i buoni valori risultano via via sgretolati da prepotenze, oppressioni e avidità, ci sono due anime gemelle che vogliono salvarsi dal baratro, in un percorso arduo, irto e disseminato di ostacoli, con la sola prerogativa di tenere il loro amore sempre vivo, sempre attivo, sempre rivestito di quella forza che lo contraddistingue e che lo rende l'arma contro i cattivi più potente che ci sia.

Il patchwork sonoro di Mylo Xyloto è costituito da frammenti sonori individuati magari per caso durante le sessioni di registrazione, ma unite in un unico tappeto in grado talvolta di volare, ma talvolta di essere solo calpestato. La ricerca della 'magia' e dell'atmosfera si è fatta più pressante e più maledettamente importante qui che negli altri album dei Coldplay. Sintetizzatori, violini, bassi, suoni elettronici, loop sono uniti in una commistione che genera un sentiero con inevitabili salite e più che attese discese, ma comunque sempre unico e sempre facilmente individuabile. Non c'è il rischio di perdersi, c'è sempre la speranza di raggiungere la meta nonostante qualche volta si debba faticare.

La sequenza di note principale, quella che dominerà – alle orecchie dell'attento ascoltatore più dell'attento fan – molti layout di varie tracce di Mylo Xyloto si individua proprio nella title track dell'album, la quale inizia con un suono distorto di chitarra che ci fa capire da dove proveniamo e da un pianoforte suonato vorticosamente, atto a portarci in un candido tunnel generato da un tenero xylofono. La parte finale della traccia svanisce sotto il bombardamento di suoni (e il sussurro 'so cold, so cold') che si collegano alla canzone seguente e che portano dritti dritti a quella galleria da cui ormai non si può tornare indietro.

Ecco Hurts Like Heaven, un brano potente, dove un Jonny Buckland ispirato con due accordi da il là ad una sequenza alla batteria che si sposa molto bene alla voce di Chris, mai come ora modificata, computerizzata e infine sdoppiata, col solo motivo, molto semplice da individuare: le personalità di chi vive la storia alla base dell'album sono due, ognuna diversa dall'altra, ma entrambe coinvolte in qualcosa che le cambierà indissolubilmente. Tecnicamente è un brano riuscito, anche se le perplessità forse restano sull'overproduzione compiuta sulle vocal part di Chris. Tali titubanze però sono spazzate via dalla chiosa dell'album, dove la batteria e i suoni distorti lasciano il posto ai due riff iniziali di chitarra di Jonny, al dolce piano di Chris e all'atmosfera di fondo generata inizialmente sulla title track.

Spostandoci oltre, si viene accolti da una melodia d'archi che istilla tanto ottimismo: è Paradise, il ciottolo senza il quale non ci sarebbe la strada, concepita dalla band come il punto cardine del disco. E' la vera e propria presentazione della figura femminile della vicenda – Mylo – la quale convive con uno stato d'animo straziato e lacerato da una persistente oppressione nel cuore e nella mente in un mondo fin troppo alieno per essere terreno. In Paradise la struttura di fondo costruita sugli archi farà capolino sino alla fine, accompagnata da un loop alla batteria così potente da amplificare anche il sapiente basso di Guy, fin quando le redini del gioco sono prese dalla chitarra di Jonny che finalmente prende in carico l'urlo liberatorio che ci si aspettava e apre la strada alla conclusione al pianoforte di Chris, tutto contornato da un battito di mani che incita ad andare avanti nonostante le avversità. Unica stonatura: il ritornello del buon Martin, il quale sembra forse spingersi un po' oltre la mera influenza dell'r'n'b. Ma è un peccato veniale in confronto al resto delle parti vocali.

A fianco della figura femminile, subito dopo i Coldplay focalizzano l'attenzione su quella maschile – Xyloto – in uno di quelli che diventerà un cavallo di battaglia dell'intera loro discografia, una vera e propria hit, forse il pezzo più bello, convincente ed entusiasmante dell'album: Charlie Brown. Aperto dall'acusticità di una mai invadente chitarra, possiede un fade-in che esplode fino a distruggersi sotto i colpi di una (finalmente fragorosa – almeno fino a questo punto dell'album) batteria di Will e al cospetto delle forti plettrate di Jonny Buckland e di un più che onorevole basso di Guy. E si srotola con una facilità ma al contempo una ricchezza e dovizia di suoni semplicemente entusiasmante. E' fare una discesa senza mai mettere il piede sul freno e senza mai respirare, è aspettare per tutta la vita la notizia più bella del mondo, è ritrovarsi al punto giusto nel momento giusto con la persona giusta, è dominare il mondo senza esserne dominati. Mai come in questo pezzo l'ammirazione per gli Arcade Fire può tradursi in una così corposa influenza. Mai come in questo pezzo si era sentita la voglia dei Coldplay di far capire quanto si possano divertire in studio. Acusticamente un brano perfetto, ripristina verso la parte finale quel patchwork sonoro ascoltato prima di entrare nel tunnel (e presente, appunto, nella title track) prima della deflagrazione sonora (tutta gioia per le orecchie, per carità) condotta da un ispiratissimo e fin troppo attivo Will che porta alla carica tutti gli altri strumenti: a Jonny non resta altro che ribadire con forza i suoi accordi, a Guy gli viene fin troppo facile far sentire tutto quel 'contorno' che finalmente trova pieno spazio in un brano dei Coldplay e Chris non può esimersi dal chiudere il pezzo con un 'We'll be glowing in the dark' che riecheggia nello spazio e nel tempo e che lascia campo ad un commovente pianoforte, de-javu di amsterdamiana memoria. Una cavalcata liberatoria insomma. Senz'altro, il pezzo più riuscito di Mylo Xyloto.

Appresso, una soffice chitarra elettrica di Jonny tiene le redini di una ballata acustica perfettamente riuscita: è Us Against The World, il manifesto della coppia ormai formatasi contro questo mondo, troppo inadatto per due come loro che vogliono dare sfogo alle loro emozioni senza essere criticati, forviati, indotti a essere tutti uguali in una stratificazione senza soste. E' il solo Chris a menare le danze con qualche accordo alla chitarra acustica, sposata più tardi ad un mai inopportuno e perfettamente incastonato backing vocals di Will, il quale ribadisce con vigoria quel 'Slow it down' che fa da corollario ad un teorema d'amore che prende più le sembianze di una gemma che di una nenia. E quando entrano in gioco l'organo, il basso di Guy finora lasciato a tacere ma rispolverato proprio nel frangente giusto e (di nuovo) le corde di Jonny – quasi a chiudere un cerchio perfetto, tutto suona come un aver chiesto tanto dalla vita ed avere avuto in cambio tutto. I limiti della traccia sono forse quelli che danno la sensazione che essa non decolli mai come ci si potrebbe aspettare, ma la genuinità delle note prodotte fa sì che tale manchevolezza passi in secondo, se non in ultimo piano.

Un cronometro che corre alla velocità della luce, poi del suono e poi rallenta fino a fermarsi, accompagnato da effetti sonori che ricordano le trasmissioni spaziali e le telecomunicazioni con altri mondi provenienti dritte dritte dai film di fantascienza costituiscono M.M.I.X. (tributo a Matt McGinn, roadie della band), la naturale, forse troppo prevedibile e leggermente scontata introduzione del brano successivo.

Ed eccolo il brano successivo: Every Teardrop Is A Waterfall, sonoricamente fin troppo positivo a dispetto del titolo che porta. Aperto da un synth piano in pieno stile anni '80, qui si campiona 'I Got To Rio' di Peter Allen in una sequenza che andrà avanti sino alla fine della canzone. La voce di Chris risuona molto potente e cristallina, portata in parallelo alla chitarra di Jonny e ad un loop di batteria di Will, mentre la solita chitarra acustica descrive l'atmosfera sonora che poi Guy contribuirà a rendere il pezzo una più che discreta canzone glamour pop ascoltabile da migliaia e migliaia di persone. Verso la fine, si tramuta in vero e proprio tratto rock con un Will che doverosamente esce dal suo guscio e conduce il brano ad una corposa chiusura. Un misto fra Abba, Killers e le melodie balla-sul-seggiolino di Elton John. Resta un po' quel rammarico e quell'amaro in bocca per ciò che il brano sarebbe potuto essere ma che invece non è. Volutamente o meno. Resta saldo che è sicuramente uno dei pezzi più immediatamente recepibili dell'album.

Subito dopo, la stessa chitarra acustica che sembra pervadere profondamente Mylo Xyloto apre Major Minus, strumentalmente forse il brano più convincente dell'intero lavoro. Il testo racconta del microcosmo che sta letteralmente dilaniando la coppia, sempre più spiata, controllata, invasa nella privacy da occhi indiscreti e giudizievoli pronti solo a dare adito a invidia, cinismo e intolleranza. La parte strumentale di Will è forse la più ricca di sfaccettature in tutto l'album, l'atmosfera cupa viene resa ancora più dark dal poliedrico basso di Guy, improvvisamente identificabile, mentre la voce di Chris pare venire da molto lontano, e allontanarsi ancora, come se qualcuno lo stesse sradicando dal posto in cui vive e vorrebbe continuare a vivere assieme all'anima gemella. Il climax si raggiunge al pedice del brano, con uno dei più belli assoli di Jonny Buckland, tenuti più in alto rispetto ad una batteria di contorno 'al proprio posto' e a dei suoni che riecheggiano nella mente come sirene spiegate (e anche la voce di Chris sembra farsi identificare allo stesso modo). Un ottimo pezzo rock, una Dirty Day degli U2 ma più arrabbiata, più veloce e molto, molto più accattivante.

La situazione ritorna alla calma con un'altra ballata acustica, U.F.O. Sorella gemella di un altro brano in pieno stile Coldplay-di-ogni-tempo come Prospekt's March/Poppyfields, come la parente si snocciola attraverso un incipit unicamente suonato alla chitarra acustica, raggiunta poco dopo dagli archi di Davide Rossi in un connubio quanto mai azzeccato. Una piccola ninna nanna che disinfetta le orecchie dell'ascoltatore da suoni distorti e chitarre flambanti come un fermo immagine in alcune riprese da guerra. Poi, due o tre secondi di silenzio assoluto per la parte finale del brano, uno strumentale dove una chitarra acustica echizzante viene pizzicata qua e là su un tappeto rosso fatto da 'Takk' dei Sigur Ros.

Lo stesso manto sonoro dà i natali al synth impertinente di Princess Of China, senza alcun dubbio la traccia più sovraprodotta del disco. La melodia principale rimane costantemente in mano – appunto - ai sintetizzatori, raggiunti poco dalla solita batteria in loop di Will e da alcuni battiti di mani (purtroppo non così efficaci come quelli di Major Minus). La voce di Chris, in quanto a potenza e funzionalità insita nel brano, passa decisamente in secondo piano rispetto a quella di Rihanna, l'alter ego della vicenda. Alla fine, sarà più presente quella della seconda rispetto a quella del primo. La sequenza suono-coro-suono si ripete fino alla fine, mentre il tempo è scandito da rintocchi di pianoforte e dal basso di Guy mischiato all'ennesimo e costante sintetizzatore portato ad un volume forse troppo, troppo alto. Le pecche sulla strumentalità della traccia sono purtroppo evidenti e innegabili, anche se a parziale giustificazione c'è alla base l'idea che il brano è nato proprio secondo i canoni dell'r'n'b, della partecipazione della voce femminile e della melodia cupa e forte allo stesso tempo (vedi chitarra acustica nel mezzo del pezzo). Senza alcuna incertezza, è il punto più basso dell'album (non tanto per il featuring di Rihanna, probabilmente l'aspetto migliore della canzone, quanto perchè sembra rimanere fine a sé stesso, senza uno scopo evidente, privo di quell'immediatezza e di quella insita solarità interiore riscontrabile nelle tracce precedenti). Il salvagente in mare è lanciato da Guy, presente col suo strumento in questo brano forse in maniera maggiore rispetto a tutti gli altri. La bontà del suo lavoro traspare infatti senza infamia e senza lode.

Lo stesso stile del loop alle percussioni di Princess Of China viene ripreso, echizzato ed amplificato per generare l'apice della traccia successiva, quella Up In Flames che segna il ritorno dopo molto tempo di Chris Martin al falsetto. Si intravede qualcosa di già rodato per i Coldplay sin dagli albori della loro carriera: pianoforte dominante, voce calda ed accogliente, qui inseriti in un ottimo contesto costruito da archi e da una botta di stecche su un piatto metallico. La struttura risulterebbe fin troppo piatta e stratificata, senonchè arriva finalmente l'intervento di Jonny Buckland che, con un riff, innalza il brano ad una dimensione superiore, riportando alla mente alcune intenzioni di stampo squisitamente pinkfloydiano, mentre tutt'attorno gli altri strumenti fanno capolino per un light ending della stessa sorta di quello di Charlie Brown, ma purtroppo meno efficace. Questo è si, purtroppo, un pezzo che non decolla mai, ma ricorda mostruosamente brani come Careful Where You Stand, For You e quell'atmosfera vicina a We Never Change dove a volte il basso tono di voce è il suono più fragoroso che ci sia.

La percentuale di 'felicità strumentale' si alza abbondantemente con A Hopeful Trasmission, la quale riprende pari pari la struttura e la sequenza della title track, ma stavolta enucleata tramite paradisiaci archi e idiofoniche maracas all'interno di un percorso sonoro che sul finire si fa pari ad un battito cardiaco. La chiosa del brano si sposerà perfettamente con quella del pezzo successivo, in una sorta di continuum che serve all'ascoltatore per identificare, solo al momento del secondo ascolto, che è in quel punto lì che sta per giungere un passaggio importante della nostra storia.

E il passaggio importante arriva con Don't Let It Break Your Heart, un'autentica esplosione di colori, suoni e note. La batteria di Will, suonata ad una velocità davvero elevata e con colpi precisi e su cui non c'è nulla da eccepire, apre le porte ad una parte al piano che ricorda i primi Keane ma anche la 'nostrana' The Hardest Part, tutto mentre Jonny produce un suono alla chitarra che innegabilmente ricorda una cornamusa (così come accaduto in Every Teardrop Is A Waterfall). E' senza dubbio il brano più denso e pieno di Mylo Xyloto, il giusto pezzo per esprimere la gioia dei protagonisti della storia nel vedere finalmente il loro connubio concretizzarsi, rafforzarsi e rendersi talmente massiccio da non essere mai più compromesso e distrutto. E il battito di cuori finale, incastonato in un patchwork riverberato senza troppe iperboli, ne è la più immediata e genuina testimonianza. Se proprio si vuole segnalare una disattesa, è forse relativa ai livelli di volume della voce di Chris, non così alti come in Up In Flames o Charlie Brown, ma comunque volutamente sottomessi alla fragorosità strumentale del pezzo. La frase-titolo della canzone è comunque ribadita con forza e non può essere ignorata. Don't Let It Break Your Heart è liberazione, è urlare al mondo, è essere così come si è con i propri pregi e i propri difetti, è vincere la propria vita dopo anni di sconfitte, è rialzarsi dopo una caduta, è una scarica di adrenalina per chi non ha mai avuto eccitazione nella vita per colpa di altri, è un giorno da leone – finalmente – in cent'anni da pecora in un mondo che purtroppo ti aveva spinto ad essere così, è l'essenza dell'animo umano che vuole ribadire la sua importanza. Uno dei pezzi più belli di sempre dell'intera discografia dei Coldplay, con un bellissimo finale e in cui si ha nuovamente quel misto fra commozione e iperattività che veniva generato dagli ascolti dei cavalli di razza della band.

Le parole di 'Anthem' di Leonard Cohen aprono la final track dell'album, Up With The Birds, che rappresenta la fuga di Mylo e Xyloto dal mondo a cui appartenevano per arrivare al loro, finalmente scevro dall'oppressione e dall'ipocrisia alle quali erano assoggettati. L'atmosfera sonora è di assoluto stampo ambient, raggiunta da piano e voce di Chris in una morbida nenia che subito dopo si tramuta in un trionfo di archi. Una sorta di preghiera prima di lasciare la vita terrena. Sospiri, frattanto, fanno intuire che il peggio deve ancora venire, mentre un suono simile ad un segnale d'allarme sembra presagire la fine dei giochi, quando a sorpresa entra un giro di chitarra acustica assolutamente coinvolgente. Ecco il lieto fine, ecco la sorpresa, ecco di nuovo i Coldplay. In un riuscito country western, la chitarra si sposa ad un banjo per nulla inadatto al contesto e il pezzo assume colore e vivacità, senza dubbio. Si fa poi sentire una batteria discreta e mai preponderante, che ricollega alla mente sonorità del tipo Life In Technicolor e in un certo qual modo God Put A Smile Upon Your Face e che apre la strada alla migliore chiusura di un album per i Coldplay dai tempi di Amsterdam e A Rush Of Blood To The Head, con il più lungo acuto della storia di Chris ed un piano che scioglie qualsiasi cosa trovi sul suo cammino. Un pezzo che i fan e non-fan della band (ri)valuteranno nei listening successivi.

Nel complesso, Mylo Xyloto ricorda un famoso spot di scarpe di qualche tempo fa: o lo si ama, o lo si odia. A ragione, non è semplice come Parachutes, non è emozionante come A Rush Of Blood To The Head, non è compatto come X&Y, non è completo come Viva La Vida Or Death And All His Friends, ma forse non è detto che ciò non sia un bene. Non ha delle hit memorabili (eccezion fatta per Charlie Brown), non ha un peso specifico immediatamente riscontrabile, ma nel suo insieme è tutto sommato un album riuscito, con qualche bad moment e tanti, tantissimi spunti positivi che invoglieranno sicuramente gli appassionati di musica ad assaporarlo ancora. E ancora. E ancora.