Online la nostra recensione di Viva La Vida
Viva La Vida Or Death And All His Friends [ a cura di tidalwave ]
E’ davvero un’esplosione vitale di colori e ricorda l’immagine di un bambino che guarda attonito dentro un caleidoscopio. Quest’inno alla gioia di vivere (come la stessa title track del disco) lancia un ponte al di là della morte a Frida Kahlo, che dipinse durante l’ultima settimana della sua vita “Viva La Vida”, una natura morta di cocomeri. “Non sono malata, sono spezzata. Ma finché riesco a dipingere, sono felice di essere viva” dichiarò la pittrice messicana, nonostante versasse in gravi condizioni fisiche. Un’affermazione che sottolinea l’energia dell’artista sudamericana, che Chris Martin ha voluto scegliere come musa ispiratrice per il suo ultimo lavoro.
42 è il titolo della quarta traccia: un nome importante se si pensa alla serie radiofonica “Guida galattica per autostoppisti”, creata dallo scrittore Douglas Adams e in seguito adattata a romanzo, serie televisiva, videogioco e ultimamente in film per il cinema.
42, nella “Guida galattica per autostoppisti”, è la risposta alla domanda fondamentale su "la vita, l'universo e tutto quanto”. Ciò riconduce a Pitagora e i pitagorici secondo cui nel numero risiede il mistero del creato, dello spazio terrestre e quello cosmico. Il matematico e i suoi seguaci erano convinti che la musica fosse figlia del numero: essa è scienza armonica, ovvero scienza del combinare i suoni attraverso i rapporti aritmetici.
E’ un caso che i Coldplay, britannici come lo stesso Douglas Adams, abbiano voluto inserire tali conoscenze in Viva La Vida Or Death And All His Friends? E’ lecito chiederselo, considerati gli studi di Chris Martin, la laurea in matematica di Johnny Buckland e il nome di una loro vecchia canzone, quale è Don’t Panic, frase che si ritrova sulla copertina della “Guida galattica per autostoppisti”?
Ad ogni modo, in 42 si susseguono quattro fasi melodiche e armoniche (dove l’ultima rappresenta una ripresa della prima. Un’emulazione della forma sinfonica, dove il movimento iniziale possiede la medesima tonalità dell’ultimo?). Da principio sembrerebbe una preghiera accorata con il solo accompagnamento del pianoforte. Mestamente si aggiungono violini, batteria e il resto, giungendo al coro che si solleva supplichevole con le mani rivolte al cielo. A questo punto, quando tutto vuole assopirsi, si viene scaraventati invece da un poderoso basso sincopato, (corredato di un’ottima chitarra ritmica), un rullante che pesta ostinatamente e la chitarra solista che si abbandona in arabeschi seducenti. Un’atmosfera da casbah, dove i bottegai montano banchetti per le spezie, profumi o datteri, l’incenso pervade l’aria e l’oblìo prende il sopravvento.
La terza parte sopraggiunge repentinamente, aggrappandosi all’ultima nota dell’assolo di chitarra: si allunga con passo cadenzato sulla scia luminosa tracciata dal pianoforte, mentre la voce si mostra sicura e convincente. E’ un edificio sonoro che ricorda molto la costruzione di una canzone pop 80’s.
Improvvisamente il livello di concitazione si abbassa: 42 torna al clima sconfortato iniziale e chiude il cerchio melodico, servendosi di un lacrimevole violino.
La seconda double track si compone di Yes e Chinese Sleep Chant. Il primo pezzo possiede un meraviglioso upbeat mood, ovvero un ritmo “in levare” (combinato a tocchi sincopati) che, insieme alle sfumature “orientali” del violino, produce un effetto di tensione (l’accorgimento middle-eastern style si scova anche in Daylight, sesto brano di A Rush Of Blood To The Head”). Il basso di Yes si alterna a semplici curve d’accompagnamento, a quelle continue e ossessive, mentre dalla chitarra scorrono languidi volteggi, simili ai colori intensi delle gonne gitane. L’espressività vocale del frontman qui viene portata ai massimi livelli, utilizzando registri tenebrosi e sensuali tonalità acute.
La frenetica linea di chitarra conduce a Chinese Sleep Chant in contrasto con la voce in falsetto, che si mostra gradevole e orecchiabile. Addentrandosi nel mondo virtuale del web, si scopre che una ninna-nanna cinese risuonerebbe così: “Quando scende la sera sopra la Cina tutti a dormire, onorevoli bambini dentro i vostri sogni andiam / Quando scende la notte che brilla nel cielo sui vostri cuscini, onorevoli bambini la notte magica sarà / Batti con due bastoncini sopra una latta vuota per far di un sogno un regno di grande umanità / Dormi piccolo saggio nella tua culla coi tuoi pensieri, piccoli desideri che poi realizzerai”. Nel testo della poesia si indica un “…regno di grande umanità…”: ciò è relazionabile a Reign Of Love? Un quesito che potrebbero chiarire solo i Coldplay.
Violini ritmati e ben scanditi aprono la porta a Viva La Vida, ottava traccia dell’album omonimo: l’impatto è forte, emozionante e libera nell’aria milioni di farfalle. Rappresenta uno straordinario esempio di avvicinamento di musica pop-rock a quella sinfonica. E’ una costruzione sonora di stampo epico-romantico, laddove si muovono uomini in divisa marziale, portando in alto lo stendardo di grandiosi valori.
La grancassa si burla dell’ascoltatore dandogli l’impressione di risuonare con il suo cuore, mentre i violini si allungano in un sterminato spazio, fatto di strade virtuali color indaco. La tensione cresce finché una rullata sui timpani e piatti scuote gli animi, regalando commoventi sensazioni di serenità. Nel contempo si inseriscono i suoni sordi di campane, rivivendo spensierati periodi fanciulleschi, intrisi dell’odore di pasta frolla e delle corse nei prati. I synth divengono clavicembali, xilofoni o strumenti a fiato: l’ascoltatore ora viene trascinato su su nel firmamento, cullato da una luna materna. I violini, con il loro passo scandito, lo conducono verso altre mete: adesso il pianoforte (riverberato per l’occasione) indossa il cappello da capo majorette e guida la truppa ad un’altra destinazione. Si sentono le campane ancora più forti e una seconda voce irrompe nella scena: un muezzin dall’alto della sua torre grida parole di speranza. Dalle fondamenta dell’edificio echeggiano i suoni di basso che insistono sulle vetrate delle finestre, mentre un’ennesima rullata appassionata conduce al termine della canzone. Un coro, dal sapore secentesco, pone l'ultimo mattone.
Violet Hill, al pari di altre canzoni dei Coldplay, fa il suo ingresso servendosi di un synth impalpabile: si introduce la voce, seria e dotata di un’eco profetica. La chitarra sopraggiunge con invadenza e apre nervosamente un varco: batteria e basso marciano con passo sicuro, mentre la gente impaurita si nasconde negli angoli più bui. Energica e severa, Violet Hill è un ammonimento al mondo superficiale, alle speranze distorte, all’ipocrisia, alla comunicazione falsata, alle guerre che si dichiarano giuste. Il coro si solleva e ascende fino ai corpi celesti, indicando, da un’altura spigolosa, gli uomini con indice austero.
Un pesante e ossessivo beat di rullante (abbinato alla grancassa) spalanca l’uscio all’assolo di chitarra, semplice e svigorito.
L’ennesimo possente ritmo di batteria, ora gira silenziosamente la chiave nella toppa. Al di là della staccionata, delle siepi, dei boschi risiede il segreto ultimo di salvezza.
L’aspetto combattivo di Violet Hill sposta i riflettori su un’altra connessione sostanziale.
La copertina del cd prende a prestito l’immagine del dipinto “La libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix: la Marianne, simbolo della Repubblica francese, spinge la comunità verso la rivoluzione sotto gli ideali di fraternità, uguaglianza e libertà. Una scelta simile è dettata forse dai valori di cui i Coldplay si fanno portavoce nel ramo sociale? Anche gli abiti della band inglese suggeriscono la compartecipazione ad una battaglia, considerati il taglio marziale delle giacche, i colletti alti ed i grandi bottoni dorati, tipici dell’epoca romantica. Inoltre nel clip di Violet Hill l’aspetto dei Coldplay si mostra teso e logoro: i visi sono sporchi, come si fossero premuti sulla terra in una corsa verso la salvezza, mentre lo sguardo si fa serio e consapevole.
Dal cucchiaino scivola il miele dorato, che annega lentamente in una tazza fumante di thé: è Strawberry Swing un brano dalle tinte caramellate che carezza i capelli e che terge il sudore dopo una giornata calda e stanca. La chitarra dell’ouverture (vicina ai suoni del banjo) suggerisce all’ascoltatore d’allentare la cravatta. E’ una melodia tenera che si stende come burro sul pane, poggiandosi su soffici tocchi sordi di batteria e su una semplice linea di basso. I tom e i timpani ricordano le sonorità di quegli strumenti usati fra le civiltà tribali, mentre la voce si rende dolce e confortante.
Strawberry Swing è affine ad una ninna nanna e mantiene questa sua struttura per gran parte della durata del pezzo, finché, svegliata dalle parole “People moving all the time / Inside a perfectly straight line / Don't you wanna just curve away?” modifica lievemente la sua forma: si inseriscono chitarra acustica e i sostegni ritmici si palesano ulteriormente. Ciò richiama alla mente Maurice Ravel che, mosso da spirito provocatorio, adottò la medesima costruzione melodico-armonica per il suo Boléro.
L’ultima double track dell’album riunisce Death And All His Friends e The Escapist.
Voce e pianoforte sono protagonisti nell’incipit della prima canzone, passeggiando mano nella mano sulla stessa pista melodica, mentre la chitarra (che si inserisce al termine della prima strofa) esegue delle variazioni su tale motivo.
Un’atmosfera sonnolenta rotta dall’irruzione dell’assolo, simmetrico e cadenzato, corredato di basso ritmato e batteria vigorosa, mentre il frontman si abbandona a vocalizzi sussurati.
Nel contempo entrano in scena i synth, che preannunciano la fase musicale successiva, dove padroneggia un secondo assolo: esso è come un grido, che si dipana fra le vie della città e ammassa le foglie in un turbinio verde sui sentieri roridi di rugiada.
Gli strumenti lasciano uno per volta lo spazio scenico: del suono cristallino di chitarra, rimane solo una tenue scia; poi è la volta di basso e pianoforte, che lasciano senza protezione batteria e synth: essi sostano nel brano, sino a quando anche loro non fuggono.
The Escapist è un brevissimo viaggio onirico dove i pensieri e i sogni fluttuano in un girotondo di colori. Accanto i synth, sono riconoscibili minuscole note di pianoforte, ripetute all’infinito per creare un senso magico di stupore. La voce principale è intersecata da altre linee vocali, in un coro celestiale e sfumato nei toni.
E’ qui che l’incanto di Orfeo si rende visibile, rapendo le menti con l’inganno della lira. E’ qui che l’incantatore rende possibile una via di fuga. E’ qui che il sonatore diviene Virgilio e guida l’ascoltatore verso un paradiso, un eden o in una terra di mezzo. Ciò dipende dalle scelte dell’uomo. “Alla fine ce ne stiamo sdraiati svegli e sogniamo di scappare dalla realtà”: per dove? Viva La Vida Or Death And All His Friends sembra indicare la strada: ricongiungersi alla vita per accomodare le cose rotte, regalare un sorriso, far germogliare mille arcobaleni nell’umanità e per rinascere in Life In Technicolor.
amsterdam
Ideatore e sviluppatore di Coldplayzone, Gabriele è un webdesigner milanese emigrato in Sicilia nel 2004 (per scelta di vita), il quale sente il desiderio di creare un 'posto' online [ zone ] da condividere con tutti gli appassionati di musica, in particolare quella dei Coldplay. Grande appassionato di musica inglese e di tutto ciò che si possa definire 'British'.
Sito web: www.coldplayzone.it Email Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.